In risposta a un elzeviro sul Giornale di Brescia

L'opera è viva! Evviva l'opera!

Questa mattina l'amico loggionista bresciano Pierluigi Dorici mi segnala un elzeviro a firma Curzia Ferrari (qui la sua biografia su wikipedia). Lo leggo e rimango sconcertata.giornaledibrescia16gennaio2020

Non posso esimermi dal rispondere.

Ecco il testo che ho appena inviato alla rubrica Lettere al direttore del Giornale di Brescia

Egregio direttore,

leggo questa mattina, 16 gennaio, l'elzeviro di Curzia Ferrari Perché non si scrivono più opere liriche? e, semplicemente, non credo ai miei occhi. Leggo, rileggo, anche ad alta voce e da appassionata, da giornalista, da critico musicale e da musicologa saggista trasalisco e m'indigno.

In primo luogo trasalisco e mi indigno perché ogni considerazione di Curzia Ferrari nasce da presupposti errati, da un'evidente mancanza d'informazione.

Si parte subito male, con una trascrizione errata dalla voce wikipedia dedicata a Porgy and Bess: il popolare portale riferisce che la produzione della compagnia Living Arts del 1991 (l'opera è del 1935) non avrebbe mai debuttato in Italia. Ma nessuno potrebbe affermare che il titolo manchi dai nostri cartelloni: chiunque frequenti anche solo un po' i teatri lirici sa bene che il capolavoro teatrale di Gershwin si vede eccome sulle scene italiane sin dal debutto veneziano del 22 settembre 1954. Al Grande di Brescia, per dire, apparve già negli anni '70.

Anche al di là dell'abbaglio sulla diffusione di Porgy and Bess, scrivere che questa è stata l'ultima opera lirica composta non è un'opinione, è semplicemente un errore madornale. Non sarebbe un'opera Capriccio di Richard Strauss (1942), non sarebbe un'opera The Rake's Progress di Stravinskij (1951), non sarebbe un'opera Les dialogues des carmelites di Poulenc (1957), non sarebbero opere Il cappello di paglia di Firenze (1955) e Napoli milionaria (1977), le opere di Britten, Menotti, Rhim, Reimann, Sciarrino, Adès, Corghi, Tutino, Colasanti, Montalbetti, Benjamin? Molti titoli del XX secolo (post 1935) e anche del XXI sono ormai classici consolidati nel repertorio, molti compositori viventi si dedicano al teatro e i loro lavori debuttano e circolano in importanti istituzioni liriche, nelle grandi capitali (dal Metropolitan di New York alla Scala di Milano) come al Coccia di Novara o al nostro Teatro Grande.

Quartett, per esempio, è un'opera di Luca Francesconi ispirata alle Relazioni pericolose di Laclos visto attraverso una pièce di Heiner Müller: ha debuttato alla Scala nel 2011 e da allora ha girato il mondo con oltre quaranta riprese, prima di tornare a mietere successi a Milano nello scorso autunno.

Insomma, le sagge parole del Figaro mozartiano “Io non impugno mai quel che non so” dovrebbero suggerire maggior prudenza nel sostenere considerazioni di questo tipo, che giungono a diffondere l'immagine infondata dell'opera come genere morto, mummificato e museale. L'opera è più viva che mai, si diffonde sempre più capillarmente in tutto il mondo. Si scrivono opere nuove e molte hanno successo, vengono riprese. Certo,con quattro secoli di repertorio a contendersi spazio nelle stagioni, non possiamo pretendere una netta predominanza di novità in cartellone com'era nel '700, ma il panorama creativo è vivace e stimolante. Proseguire elencando nomi e titoli sarebbe ozioso. Ricorderei solo, dato che siamo a Brescia, che negli ultimi anni al Grande si sono visti capolavori del XX secolo come Il cappello di paglia di Firenze di Rota, The Turn of the Screw (1954) e Midsummer Night's Dream (1960) di Britten, Trouble in Tahiti (1952) di Bernstein e The Medium (1947) di Menotti, si è ricordato il concittadino Facchinetti con il suo Viaggio musicale all'inferno (2017) ma si sono avute anche altre prime assolute molto apprezzate: Ettore Majorana. Cronaca di infinite scomparse di Roberto Vetrano (2017) o Il sogno di una cosa di un altro bresciano, Mauro Montalbetti (2014).

Anche il discorso, tranchant e ingeneroso, sui cantanti di oggi non risponde alla realtà. Dire che “talenti, disponibilità, studio, sacrificio, confronto” appartengono a una “terra scomparsa” suona tristemente come una cattiveria gratuita e offensiva verso intere generazioni di musicisti. Se, infatti, ci si limita ad alludere a una manciata di fenomeni crossover che con il teatro lirico non hanno nulla a che fare, si ignora la realtà, si fa torto alle schiere di artisti che animano le stagioni liriche internazionali. Autentici divi, grandi cantanti, ottimi professionisti, voci emergenti: abbiamo interpreti che infiammano i melomani, che li dividono, che accendono infinite discussioni. Sì, il melomane di oggi ascoltando i dischi potrà distinguere Lina Pagliughi da Toti dal Monte, ma andando a teatro (e ascoltando registrazioni più recenti) conoscerà bene anche Anna Netrebko, Anja Harteros, Sonya Yoncheva, Marina Rebeka, Pretty Yende, Jessica Pratt, Anna Pirozzi e tanti altri.

Pezzi come l'Elzeviro di Curzia Ferrari diffondono un'idea dell'opera fatta di pregiudizi e da pregiudizi generata. I fatti ogni giorno ci confermano che l'opera è più viva che mai, che continua a viaggiare per il mondo e a diffondersi in ogni continente (dati sulle attività dei teatri e l'affluenza del pubblico parlano chiaro). I fatti ogni giorno ci confermano che l'opera è un genere che continua a stimolare nuove creazioni, passioni, riflessioni, che si rinnova anche nella rinascita continua dei titoli storici con uomini e donne di oggi per uomini e donne di oggi. I fatti ci dicono che l'opera è viva, è vita e non è la venerazione di una salma imbalsamata.

Roberta Pedrotti 

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