Mosé in Egitto dal Rossini Opera Festival

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Farmaco soave

In questi giorni di quarantena, fra mille e mille proposte in tv, radio e web, non posso non segnalare con particolare fervore la trasmissione sul sito del Rossini Opera Festival di Mosé in Egitto (https://www.rossinioperafestival.it/archivio-news/mose-in-egitto-in-streaming/). 

Mentre nella mente si affollano mille pensieri che restano nella tastiera prendendo faticosamente forma, questa riproposta risveglia emozioni profonde, che condivido riportando le mie recensioni, pubblicate da Gli amici della musica, del debutto vissuto in teatro e della ripresa in DVD.

 


Tutta la sensibilità critica dell'uomo moderno nella visione di Vick

Mosé splendente di devastante realtà 

di Roberta Pedrotti

PESARO, ROF 2011 – 11 agosto, prima. Il compito del teatro non è semplicemente d'intrattenere, ma di far pensare. Un intrattenimento di qualunque genere senza pensiero non può definirsi arte, né può definirsi artista chi si limiti a mettere in scena l'opera ripetendo supinamente topoi e stereotipi tramandati dalla tradizione, per quanto nobile; troppo semplice sarebbe ripetere un solenne Mosé barbuto che agitando la verga compia prodigi per salvare gli oppressi. Semplice, ma a ben guardare impossibile se si legge con attenzione il libretto e si vuol riflettere al di là di una rassicurante figurina a metà fra Michelangelo e C.B. De Mille.

Graham Vick non ha fatto che questo: leggere con attenzione il testo e la musica del Mosé in Egitto con la sensibilità critica dell'uomo moderno. Vogliamo dire che questo allestimento debutta proprio a un mese dal decennale dell'11 settembre? Legittimo, certo, ma semplicistico, perché il lavoro del regista inglese, pur con i suoi richiami all'attualità è molto più complesso e profondo, è una denuncia contro ogni violenza, contro ogni integralismo, ci mostra quel che ormai distrattamente ci vediamo proporre da decenni da giornali, notiziari, internet con tutta la rinnovata forza che il teatro - soprattutto vorremmo dire il teatro in musica - ha e deve avere. Un pugno nello stomaco, un Mosé duro e spietato che ha scandalizzato molti (a dire il vero parecchi a priori, senza essersi presi la briga di venire in teatro a constatare di persona) ma in realtà non offende nessuno, mostra solo la realtà, una realtà che di per sé è un insulto all'umanità. Entrando nell'Adriatic Arena notiamo bigliettini, foto, appelli e ricordi per persone amate, le maschere ci accolgono in sala vestite come le donne di servizio del palazzo di Faraone, con un semplice camice azzurro; il tema ostinato delle tenebre che apre l'opera accompagna la disperazione del popolo egiziano ferito che invoca l'aiuto del suo sovrano, ma anche il nostro. Alex Esposito nel ruolo del Faraone Appare infine Mosé, accompagnato dal fido Aronne pronto a riprendere le sue dichiarazioni con la videocamera, è il condottiero del Dio degli eserciti, veste modernamente con tuta, giubbotto e turbante. Come Bin Laden? Forse, ma prima di tutto da guerriero del proprio Dio, senza dimenticare che semmai è stato lo sceicco di Al Quaeda a ispirarsi a figure come quella del liberatore degli ebrei dall'Egitto. Mosé fa riapparire la luce con un messaggio divino: è una sorta di lampadario d'oro e cristallo, epifania celeste o emblema di ricchezza che poi, nel finale primo, crollerà uccidendo Osiride. Potrebbe trattarsi di un attentato preparato dall'inizio, del simbolo del potere economico che si sostituisce agli ideali umani e spirituali e causa i conflitti, incarnazione dell'angelo di morte citato nel libretto di Tottola: quello di Vick è uno spettacolo aperto a molte chiavi di lettura, assolutamente coerente e lineare nel racconto eppure difficile da rendere nelle parole con la medesima forza dell'azione teatrale. Perché tutto è perfetto, la recitazione superlativa e curatissima nei minimi dettagli nel brulicare d'una reggia mediorientale bombardata, dove si discute di politica, si ama, si fa propaganda, si addestrano terroristi e kamikaze. Osiride ed Elcia sono i portavoce dei mille Romeo e Giulietta mediorientali di cui ci raccontano i media, il Faraone che si trova a dover fronteggiare la minaccia interna di un popolo che per ottenere il suo scopo utilizza qualunque mezzo e gestire i rapporti diplomatici con i confinanti che non vogliono accogliere i profughi (così il sottovalutato Tottola nel libretto), Mosè è ambiguo, implacabile, inflessibile. D'altra parte, non c'è violenza nelle piaghe che affliggono biblicamente il popolo egiziano? Quel Dio non appare forse violento, guerriero e vendicativo? Qual è mai la differenza fra gli innocenti di Betlemme e quelli sterminati per permettere agli Ebrei di partire per la Terra Promessa? Forse che i primi sono stati uccisi da Erode e i secondi da Dio? A José Saramago questo spettacolo sarebbe piaciuto, penso. Il coro nel finale primo canta minaccioso “Dio così stermina i suoi nemici” dopo che Mosé ha proclamato “La grandine ed il fuoco l'Egitto struggerà”, e il personale di servizio, la gente per le strade si scopre con minacciose cinture da kamikaze le cui luci restano a brillare nel buio, perfino due bambini, stringendo la mano del profeta, appaiono pronti a uccidersi. Un'immagine devastante, come lo è il finale secondo, straziante epifania della peste e della strage dei primogeniti, quando un misterioso gas comincia a far cadere gli egiziani, mentre le madri ebree salvano i propri figli con maschere antigas sorde alle suppliche dei bimbi “infedeli”. Lo strazio di un popolo è quello di Faraone sul corpo del figlio, è quello che Rossini ha tradotto in musica nell'atroce contrasto fra il suo compianto su Osiride che “più non vive” e Mosé che feroce canta “E a così gran portento non vi arrendete ancor?” Ma i seguaci del profeta non sono carnefici, sono anche, naturalmente, vittime, così come i potenti egiziani si macchiano a loro volta di efferatezze, torture, esecuzioni sommarie. È la guerra, è lo scontro d'interessi economici e cecità integraliste in cui sono sempre i deboli, il popolo a essere sconfitti, da entrambe le parti. È il Mosé in Egitto di Rossini, che, ricordiamolo, è opera diversa dal Moise et Pharaon (e di conseguenza dalla sua celebre traduzione italiana), più incisivo come drammaturgia, meno spettacolare e più politico e psicologico, più attento alle dinamiche interne alla corte egiziana che non a illustrare la condizione del popolo ebreo (il Moise francese si apre con una grande introduzione nel campo israelita, mentre l'opera napoletana ci immergeva subito nello smarrimento degli egizi colpiti dalle tenebre).

Vick, che aveva già dato un'esemplare lettura, radicalmente diversa e indimenticabile, del Moise al Rof nel 1997, lo sa bene e lavora sul testo e sugli attori da sommo artista qual è. Le scene e i costumi di Stuart Nunn, le luci di Giuseppe di Iorio fanno il resto per siglare uno dei più impressionanti spettacoli della storia del festival pesarese, uno spettacolo assolutamente perfetto, che riesce a rileggere la preghiera come l'invocazione dei martiri e guerrieri di Dio che invocano il suo sguardo e la sua pietà mentre spargono combustibile ed esplosivo nella reggia di Faraone; ci lascia con il fiato sospeso nel finale, quando il conflitto è concluso dall'irrompere di un carro armato israeliano (ma potrebbe essere di qualunque paese, i riferimenti all'attualità sono evidenti, ma anche intercambiabili). Il suo sparo è però inutile: gli egiziani sono morti, gli ebrei sono fuggiti, resta solo un bimbo. Il soldato gli offre della cioccolata, il piccolo nasconde una cintura da kamikaze: non sapremo mai come andrà a finire, se questo si farà esplodere, se il gesto del ragazzo in divisa è in buona fede, se nasconde l'atteggiamento di superiorità dell'esportatore di democrazia (concetto non necessariamente antiamericano, ma riferibile già nell'antichità al feroce imperialismo ateniese). Rimaniamo attoniti, usciamo dal teatro con un turbamento profondo, ed è diverso, poi, aprire il giornale e leggere della Siria, della Libia, del medioriente. Merito di Vick, ma merito anche di Tottola e di Rossini, perché il lavoro è collettivo, condiviso nella musica e nel testo grazie anche alla straordinaria concertazione di Roberto Abbado. Basterebbe citare l'asciutto trattamento della parte per banda e percussioni, con quei timpani soli, sordi e minacciosi come bombardamenti per segnare l'impatto di una direzione eccellente, che sente le ragioni del teatro, ma accompagna il canto, conferisce il giusto respiro, a tratti ammaliante, alle arie e ai concertati, mantiene vivo il passo drammatico. Superlativa anche la prova dei complessi del Comunale di Bologna, con un coro impegnato anche in una formidabile prova attoriale. Nel cast, del quale non ci si stancherebbe mai di rimarcare la sconvolgente teatralità, spicca il Faraone di Alex Esposito, forse alla sua più matura prova d'interprete, virtuoso sempre timbratissimo, incisivo, splendido fraseggiatore, attore completo, complesso, commuovente. Un vero fuoriclasse. Bene si comporta anche Dmitry Korchak, tenore lirico che non trova nella scrittura centrale pensata per Nozzari il suo terreno d'elezione, ma che con classe, musicalità e professionalità, risulta un Osiride più che convincente, oltre che psicologicamente perfettamente delineato. Bravissimi anche gli altri tenori, Yijie Shi, grande gusto, canto sicuro e interprete incisivo come Aronne, ed Enea Scala, che valorizza con personalità il piccolo ruolo di Mambre. Anche la parte minima di Amenofi, confidente di Elcia, trova nella giovane Chiara Amarù un'ottima artista capace di illuminare ogni intervento. Più interlocutoria la prova di Riccardo Zanellato, scenicamente e timbricamente un Mosé assolutamente perfetto in questo contesto, anche se privo di quell'autorità negli estremi della tessitura, nonché della duttilità nel trillo, che ne avrebbero fatto un profeta ideale. Anche Sonia Ganassi presenta luci ed ombre: la figura è deliziosa, l'artista intelligente, la voce sempre più sopranile emerge nelle parti più liriche e nei duetti, mentre la tendenza ad alleggerire nell'agilità si fa più accentuata e non le permette di risolvere al meglio il virtuosismo di forza riservato ad Elcia nel secondo atto. Pessima solo l'Amaltea di Olga Sendereskaya: per fortuna Vick ne fa un personaggio interessante, ma la voce è pigolante e inespressiva, rigida e priva di colori e sfumature, perfino fastidiosa: incredibile pensare che abbia in repertorio Semiramide. Si tratta, è vero, di una sostituzione rispetto alla prevista Marina Rebeka, indisposta, ma nell'Accademia Rossiniana 2011 abbiamo sentito soprani di ben altra caratura. Ad Amaltea e Mosé si tagliano le rispettive arie: la prima è di dubbia paternità, la seconda fu cassata anche nella ripresa napoletana del 1819 (quella in cui venne inserito il terzo atto come noi lo conosciamo) in mancanza di un'interprete adeguata. Come oggi. E lo spettacolo non ne soffre, anzi, splende come una delle più impressionanti esperienze di teatro musicale degli ultimi anni. Discussa, applaudita e contestata, come è ovvio, anzi giusto. Perché l'indifferenza è sempre la peggiore delle condanne. 


 

L’anima di Mosè

recensione di Roberta Pedrotti
G. Rossini
Mosè in Egitto
Zanellato, Esposito, Ganassi, Korchak, Shi, Scala, Amarù
direttore Roberto Abbado
regia Graham Vick
Pesaro, Rossini Opera Festival 2011
2 DVD Opus Arte OA 1093 D, 2012
L’esperienza teatrale è di tale complessità e pienezza da non poter essere sostituita da nessun’altra. È unica e irripetibile, irriproducibile. Eppure ora che la tecnica lo permette, non possiamo rinunciare a riprodurla: vi sono lavori che devono essere documentati e tramandati, né la scelta del verbo paia eccessiva, giacché preservare i frutti della mente umana per i posteri, affinché la storia possa continuare a insegnare, stimolare, arricchire, è una nostra precisa responsabilità.Un incipit tanto solenne vale a ricordare una delle più straordinarie letture di un’opera in musica, una produzione che ha saputo coniugare un impatto emotivo impareggiabile a un profondo stimolo intellettuale e di riflessione politica senza travisare d’una virgola il testo dell’azione tragico sacra di Tottola e Rossini. Vale a ricordare che quello che provammo nell’estate del 2011 all’Adriatic Arena non potrà essere ripetuto, ma che ne esiste testimonianza, come un caro cimelio: altri ne potranno godere in una forma diversa, tutti potremo continuare a riflettere su queste recite e a farne il punto di riferimento imperituro che meritano di essere.
Mosè in Egitto è la storia di un uomo che nel nome della sua fede combatte per condurre il suo popolo fuori da un regno considerato nemico e lo fa compiendo azioni anche violente senza il minimo cedimento, mentre il sovrano tentenna, s’interroga sugli effetti per i rapporti con gli stati confinanti dell’esodo di questi profughi, mentre due giovani innamorati appartenenti alle fazioni opposte sono vittima dell’odio fra le loro genti. La tradizione, con la sua matrice giudaico cristiana, ci dice che Mosè è un giusto e che le sofferenze di ebrei ed egiziani sono l’inevitabile conseguenza dell’ottusa ostinazione di Faraone. Ma quando questi vede il figlio primogenito cadere vittima dell’angelo della morte c’è chi non provi pietà? Chi non compatisca questo padre vittima di un’inflessibilità divina che non poteva conoscere e comprendere fino a quel punto?
È il soggetto in sé ad essere molto più complesso di quel che siamo abituati a voler considerare, è l’opera a portare in sé i germi di un approfondimento ben altrimenti articolato. È, poi, il dovere che distingue l’artista dal routinier, anche rispettabilissimo, saper leggere fra le righe, saper dare un’anima al testo – o, meglio, saperla svelare – in mondo che possa sempre rinnovarsi.
Nel 2011, infatti, questo a molti parve uno spettacolo d’attualità, e senza dubbio lo era, ma il tempo e il filtro della ripresa televisiva non ne hanno attutito l’impatto: anzi, sono lì a confermarci che nel lavoro registico di Vick c’era qualcosa di molto più profondo di una semplice ricontestualizzazione dal regno di Ramesse II al Medio Oriente di oggi. È la lettura pura e semplice di Mosè in Egitto al di là della solenne sacra rappresentazione, dello splendido santino tradizione, della retorica. È una storia di uomini, di fedi, fanatismi, di poteri, di politica in cui nessuna parte può dirsi giusta, ma in cui tutti sono vittime e carnefici e l’unico sentimento puro e salvifico viene stritolato.
Guardate gli egiziani che arrestano, minacciano, torturano Mosè; guardate Mosè che prega mentre semina l’esplosivo, per lui un estremo atto di fede contro i nemici del popolo eletto da un Dio che in quel momento si volge a loro dal suo stellato soglio. Guardate gli ebrei che cantano “Dio così stermina i suoi nemici… Tremate o perfidi, sue furie ultrici: è questo un segno del suo favor” mostrando cinture esplosive e bombe innescate che scintillano nell’oscurità, anche brandite da bambini, ragazzini kamikaze. Guardate la bravura estrema di ogni singolo artista in scena, di qualunque età o sesso, cantante o meno.
Guardate seguendo solo l’azione, seguendo le parole e i gesti, e chiedetevi se tutto quello che di agghiacciante e mostruoso noi vediamo non sia già naturalmente nel testo, non sia nella nostra natura, non faccia parlare l’opera di Rossini agli uomini di oggi e alla loro storia, se non li spinga a riflettere.
Mille immagini di morte e fanatismo ci bombardano ogni giorno. Le parole più violente sono pane quotidiano, sdoganate al punto da non fare più quasi effetto e da rendere il passaggio ai fatti tanto naturale da essere pericolosamente impercettibile. Armi giocattolo capaci di uccidere pensate e vendute per bambini in età prescolare, espressioni di morte e di guerra svendute nel linguaggio quotidiano, mentre filtriamo milioni di informazioni e stimoli indifferenziati attraverso un monitor, rischiano di anestetizzare la nostra percezione della realtà, del sangue, della carne, della vita, del bene e del male.
Il teatro è un farmaco: un veleno, un filtro, un antidoto, una cura.
Da quella sera d’agosto del 2011 mi è impossibile anche solo ascoltare il finale del primo atto senza avvertire un nodo alla gola. Chi preferisce ammirare esternamente una celebrazione si accomodi pure con altri allestimenti; questa è arte per chi pensa che la grandezza dell’opera in musica sia dar vita proprio a un teatro autentico e profondo.

Tutto nelle prove degli interpreti, dal direttore all’ultima delle comparse ( che ultima non è mai, ma fondamentale e caratterizzata al pari dello stesso Mosè) è inscindibile da una forte linea drammaturgica e non v’è scelta musicale che non paia necessaria e inevitabile.
Così la direzione di Roberto Abbado è aspra, dura, petrosa. Echeggia la violenza, risuonano da lontano i mortai, un popolo in miseria assedia una reggia troppo ricca. Il fanatismo è alimentato dall’ingiustizia, dalle borsette firmate della regina che si atteggia a filantropa e politica senza averne la statura, dalla divisa di college inglese del principe, dalle tute sdrucite dei giovani ebrei, dalle divise delle donne delle pulizie, dalle baracche che si accampano lungo il muro che segna il confine. La devozione degli egiziani al loro re è l’unico appiglio nell’estrema sofferenza di un popolo che soffre come quello ebraico, ma ha solo un altro punto di riferimento in cui credere. In termini astratti potremmo forse lamentare la concertazione un po’ troppo asciutta e spigolosa, perfino limitata nei colori, ma proprio quelle durezze, quel ritegno, quei timpani senza ridondanze orientali sono quelli giusti. Non sarà il suono più bello possibile, ma la forza drammatica di quest’opera non può fermarsi alla pura bellezza esteriore, tanto da farci apparire come autentico e insostituibile anche il Mosè di Riccardo Zanellato, perché non importa se la pasta vocale non è quella morbida del puro belcantista, quella ampia, calda e avvolgente del grande basso patriarcale: Zanellato è un leader d’azione, di poche, ma studiate ed efficacissime parole, un estremista, un uomo che per ottenere il suo scopo è pronto a servirsi d’ogni mezzo e questa è la sua voce, né più né meno. Faraone è un sovrano pieno di dubbi, abituato a pesare ogni azione e le possibili conseguenze, a gestire una politica internazionale delicatissima e il suo canto non può che essere più mosso e variegato: con altrettanta intelligenza Alex Esposito si afferma come perfetto contraltare del profeta e sigla forse la più alta interpretazione di tutta la sua carriera. Senza cedere all’iperdinamismo che talvolta lo caratterizza, convoglia tutte le tensioni in un ché di febbrile che lo scuote senza perdere mai la dignità del capo di stato. E tuttavia umanamente vacilla allorquando scopre i terroristi annidati nel suo palazzo o vede morire il figlio, o ancora quando la rabbia e la sete di vendetta lo acciecano. Rossini scrive esattamente questo nella parte di Faraone ed Esposito è straordinario nel realizzarlo unitamente nella voce, nel gesto, in ogni espressione. Non arriva a tali vertici la coppia di amorosi, per qualche limite vocale un po’ più marcato, benché anche nel loro caso la definizione dei personaggi sia davvero centrata a tutto tondo. Ma Sonia Ganassi, davvero graziosa nel suo costume, fatica assai quando dal canto elegiaco, dalle frasi più acute e si trova a legare ampie frasi o ad affrontare la coloratura più drammatica, come nel finale del secondo atto. Ma Dmitry Korchak è un gentile tenore lirico leggero che, senz’essere un contraltino, si trova a suo agio nelle tessiture tendenti all’acuto e non dà il meglio di sé, faticando talora nell’appoggio, nella parte centralissima e altera di Osiride, per quanto l’aspetto del principino ben educato nei migliori college occidentali, indubbiamente viziato, a tratti arrogantello, ma anche innamorato sincero e passionale gli stia a meraviglia e vi aderisca totalmente. Così come Yijie Shi incarna perfettamente Aronne, senza mai scindere il musicista dall’attore, entrambi, peraltro, eccellenti; e la stessa cosa si potrebbe dire del serpentino Mambre di Enea Scala, che la personalità rende ben maggiore di quanto solitamente sia questo personaggio. Chiara Amarù è una vera perla nei panni di Amenofi e l’unico elemento vocalmente censurabile finisce per essere l’Amaltea di Olga Senderskaya, tanto azzeccata nella definizione fisica della regina glamour che vuole impicciarsi d’alta politica internazionale per sentirsi un po’ Ranja di Giordania da far sembrare comprensibile e contestualizzato perfino il suo canto sgradevole. Incredibile ma vero, miracoli del teatro musicale.
Alla fine in questo DVD possiamo rilevare un unico vero difetto, ma non di poco conto: per la prima edizione ufficiale in video del Mosè in Egitto, per di più in uno spettacolo non oleografico, ma forte di una lettura attenta e critica del libretto, l’assenza dei sottotitoli in italiano è pesante mancanza. Sarebbe interesse di tutto il pubblico, non solo di quello madrelingua, poter consultare in diretta il rapporto fra il testo originale e l’azione. Non prevedere la traduzione per le interviste in inglese allo scenografo è una triste mancanza d’attenzione verso il nostro paese che penalizza non poco la qualità editoriale di tutto il cofanetto (e ringraziamo Vick, che invece si esprime in un eccellente italiano).
Ciò nonostante, un prodotto, molto semplicemente, di cui non potrà fare a meno chi ama Rossini, il teatro in musica e crede nell’inesauribile forza drammaturgica dell’opera del Pesarese. Da guardare e riguardare, analizzare, apprezzare, amare in ogni dettaglio.